Marzio dall'Acqua

Per il murale di Giovanni Lazzarini

1991

“Il marinaio, immobile, con le mani in tasca, gli ampi stivaloni cascanti, il cappuccio che gli protegge le spalle , sembra soffermarsi a considerare il tempo, immoto: avverte ogni minimo variare d’ora e di stagione ed in essa presagisce quelle che verranno. E’ il marinaio che Giovanni Lazzarini ha posto come vedetta, come guardia, come anfitrione, come simbolico ospite, come presidio ai piedi del suo murale che fa della Camera del Lavoro di Viareggio una scenografia marinara, uno smisurato acquario, che si perde e confonde con l’azzurro del cielo.

La lievità è portata al primo piano sorretta da colonne di cui giustifica la apparente fragilità. Così il primo effetto del grande murale realizzato da Lazzarini è proprio quello di aver sottratto un edificio squadrato, funzionale, privo di grazie architettoniche, alla sua fisicità, alla sua dichiarata utilità e di averlo trasformato in chiarore, in luminosità, in atmosfera azzurrina di trasparenze percorse e variate da verdi apparizioni addensate, raggrumate, saettanti. Sul piano urbanistico la costruzione, recuperando la sua centralità, divenendo punto obbligato di uno svincolo, che nel vecchio ponte trova l’elemento più pittoresco, afferma la sua funzione di prua che si incunea in un crocile che il traffico di oggi, con la ridondante segnaletica, rischia di rendere anonimo ed amorfo, in un vissuto di movimentato delirio.

Il primo segnale che deriva da questa lucida operazione è che è possibile cambiare il mondo, è possibile trasformare l’esistente ed, attraverso un’operazione estetica, restituirgli una forma, sottrarlo al contingente ed al mutevole, ridargli dignità, proporlo come punto centrale di vita associativa, di socialità attiva e partecipe, come stimolo per un moltiplicarsi di interventi e di azioni che potrebbero, senza grandi costi, senza irreparabili trasformazioni mutare e migliorare la vita, lasciando spazio anche al sogno, alla fantasia, ad una intimità di emozioni e sentimenti tali da trasformare un borgo, una città, in una grande casa di e per tutti.

Altrettanto forte è il legame con la natura, con l’ambiente, con le luci, l’atmosfera e il loro mutare con regole e ritmi sovrumani. Il murale è per sua stessa natura destinato a misurarsi con gli elementi, che ne diventano gli estremi creatori. Questa lenta ma inesorabile metamorfosi, questo invecchiamento danno al murale un senso particolare di vita, lo rendono simile a noi, al nostro invecchiare ,permettono di coglierne le trasformazioni e di misurarle, confrontarle con le nostre. L’ affresco in un luogo chiuso pretende l’eternità, tende a misurarsi con stagioni e tempi che si proiettano in un futuro che, già ora, sappiamo ci sarà precluso. Il murale è deperibile, è pubblico, non richiede spazi o luoghi privilegiati.

Per questo pochi anni fa – sembrano così remoti da apparire leggendari – il muralismo si era proposto come arte di diffusione e sostegno della lotta politica, collegandosi idealmente all’ epica popolare che aveva ispirato durante la rivoluzione messicana artisti come Josè Orozco, Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros fino alla brigata cilena Ramona Parra degli anni settanta. Il murale rivoluzionario, l’“editto” come lo ha definito Vacchi, è stato poi sommerso dal graffitismo metropolitano che urlava l’emarginazione, la disoccupazione, l’alienazione urbana, trasformato e fagocitato ben presto in una delle tante mode che promettono di esorcizzare e disarmare anche gli incubi più assillanti e tormentosi.

Proporsi un murale oggi non solo è operazione contro corrente, ma può apparire una sterile provocazione. Nulla di tutto questo è nell’ opera viareggina di Giovanni Lazzarini: siamo oltre i murales rivoluzionari, oltre il graffitismo metropolitano, oltre la contestazione murale a spray degli “indiani” più o meno urbani. Il murale di Lazzarini è monumento, è celebrazione oltreché invenzione, positiva presenza cittadina, stimolo alla socialità. Ha radice, come vedremo in altre ben più profonde tradizioni locali, ma non per questo municipali.

E’ civile, discreta sfida all’ apatia, alla supina accettazione dell’ esistente come ineludibile ed irreparabile. Lazzarini è indubbiamente un artista “popolare”, un narratore di un epos marinaro, “non suona col flauto, intona con l’organo, strumento del collettivo, narrazioni”, come ha scritto De Grada, eppure questo murale, nel suo insieme, egli ha una libertà d’invenzione, di costruzione, di straordinaria raffinatezza, di calibrata armonia, come se una musica astratta sottendesse tutta l’ opera. Per ritrovare il Lazzarini che conosciamo, pittore della “storia di un popolo” come lo vedeva Alfonso Gatto, dobbiamo focalizzare i singoli quadri che compongono il grande affresco,ma anche in essi troveremo prevalere una luce, una atmosfera che li rende meno duri, meno drammatici di tante sue tele.

Non a caso il punto centrale dal quale divergono le due pareti dipinte è un sole fantastico contornato da voli di gabbiani, che sembrano l’estremo ricordo di una colomba che tanta parte ha avuto nel simbolismo dei movimenti operai e pacifisti. La figurazione si trasforma in ritmo, in contemplazione di forme dolcemente dinamiche, che si susseguono come onde impastate di luce. In questo moto altalenante e sinuoso le figure si smarriscono, diventano evocazioni, emblemi – mai simboli- di una realtà complessa mutevole e mutata che il pittore invita a guardare, ma oltre o altrove rispetto al muro dipinto. Una tensione pervade tutta l’ opera ed è ottimistica attesa del cambiamento, una anticipazione del nuovo, del diverso.

Lazzarini può fare questo proprio perché ha chiara e completa coscienza della tradizione del passato, della strada percorsa. Ma il senso di serena preparazione al futuro che permea l’opera deriva dal fatto che si pone come centrale rispetto alla maturazione dell’artista, ma ancora più rispetto ad un ambiente ad un territorio al quale egli dedica questo suo canto d’amore e che ha come confini il mare e il suo dilatato orizzonte e le bianche cave di pietra delle Apuane, le luci della pineta e il fervore dei cantieri.

E’ centrale anche rispetto ad un passato ancora vivo e ad esigenze, che pur nel mutare dei tempi e delle ideologie, sono altrettanto vitali perché intrinseche alla società stessa dell’uomo, alla sua dimensione civile e comunitaria, al delicato equilibrio che esiste e deve esistere tra egoismi ed interessi contrastanti e laceranti. Il murale, nato da e per una celebrazione, diventa così fonte di mediazione, di serena contemplazione della convivenza, nella sua quotidianità, nella sua ritualità – a questo richiamano i singoli quadri.

E’ una complessa e delicata allegoria della solidarietà tra gli uomini, della loro storia e dell’ambiente nel quale vivono. C’è qualcosa di classico nel murale di Lazzarini, perché il suo occhio sembra guardare a ciò che vi è di eterno, di sostanziale nell’esistenza dell’uomo, nel suo lavoro, nel suo desiderio di trasformare il mondo. Proprio questo sguardo pacificato potrà irritare chi crede che sia il momento, ora, della rabbia, dell’urlo e del dolore, della negazione ad oltranza dei grandi mutamenti in atto, dell’estrema difesa di un’utopia.

Ma a ben riflettere è da questo estraniarsi dal contingente e dal mutevole, per chi ha scelta di campo- umana ed esistenziale, prima che ideologica – ha fatto tempo fa, che nasce la convinzione profonda della giustezza delle domande poste, la capacità di vedere sotto le contraddizioni della realtà i nuovi bisogni, le nuove emarginazioni, le nuove regole di una civile convivenza, i nuovi riscatti di dignità conculcate e ferite. Non è più il tempo della fede, ma della speranza, non degli eroi ma degli uomini.

Lazzarini riesce a trasmettere tutto ciò nel suo affresco pure destinato a perire, che perde così il suo carattere occasionale per diventare una riflessione attenta e positiva su questi nostri concitati anni. Non a caso è proprio in questo modo che l’arte diventa statua, oggetto inerte e di museificazione – il monumento di Puccini e l’inquietante sarabanda delle maschere che volutamente chiudono i due lati estremi, mentre vitale, “naturale” è e rimane il lavoro dell’uomo: arte come celebrazione inerte o come turbamento, come irrequieto desiderio di oltrepassare limiti e confini; il lavoro come radice del quotidiano e del sociale, come effettivo rapporto con la natura e le sue stagioni.

Così Lazzarini affonda le sue radici umane ed artistiche in quella “fratellanza apuana” che ha segnato non una stagione, ma un secolo della cultura e della storia di questa terra. Egli è l‘erede di artisti come Angelo Tommasi, Galileo Chini, Plinio Nomellini, Alberto Magri, Lorenzo Viani e Moses Levy ,pittori tutti che intesero la propria arte come impegno civile e politico, in un intrecciarsi di relazioni e presenze.

Storici come Umberto Sereni e critici come Raffaele Monti, stanno ricostruendo questa felice stagione con acribia e passione. Ecco perché queste brevi note hanno come titolo un verso da SOTTO L’ALPE DI VERSILIA di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, poeta che di quegli artisti fu sodale.

Per comprendere l’opera di Lazzarini si deve ripensare a questo singolare secolo di arte e vita che proprio in questa terra ebbe il suo crogiuolo, che fu fenomeno locale, ma anche evento europeo, esperienza particolare, ma anche collegamento ideale e reale con le più belle intelligenze del tempo e con i più generosi innovatori. Con l’anima più autentica e segreta di Viareggio si riconciliano Lazzarini e il suo murale, lontano dal clamore turistico e mondano.”

1991, Marzio dall’Acqua