“La voglia della parola, Parola come espressione di assoluta libertà. Tanto da uno stile, costruito con anni di paziente ed amato lavoro tra pennelli, bronzi e vetrate. Quanto dal mercato, sovrano termometro di ogni fare. La voglia della parola per allargare un racconto, per ampliare un dialogo con la “repubblica del mare”, con la darsena dei calafati, dei pescatori, dei marinai. Con i gabbiani e le onde che spruzzano sul molo. Con l’odore della pece, il rumore delle gru. Con l’anima di un mare che è simbolo della vita, crocevia di sogni, speranze, nostalgie.
Giovanni Lazzarini ci pare voglia misurare proprio questa ambizione e confrontarsi con questo bisogno di libertà. E merita incoraggiamento perché dimostra di riuscire a far scavare alle parole questo mondo infinito, luogo dell’ eterno fluire, e a rimandarci schizzi, appunti, frammenti dell’ Uomo, con i suoi tormenti, i suoi conflitti, i suoi amori.
Perché riesce a far dire alla parola qualcosa di più,, anzi di ulteriore, a ciò che da decenni quel vissuto suggerisce all’inesauribile vena della china e dei colori. Vena che ne ha fatto un genuino e schietto “pittore del popolo”, artista modernamente capace di penetrare l’anima popolare. Se il Mare nella sua arte, come annotava accoratamente Raffaele De Grada, non è il mare della tragica sfida di Ulisse, ma piuttosto quella della triste necessità di Enea, in poesia – quella che ha in esso il suo marchio, piuttosto che quella che si cimenta con il terreno del manifesto, se non dell’invettiva – assume in sé altri connotati, va a toccare inesplorati angoli, prova, si, nuove sfide.
Eccolo. Allora il Mare, laggiù dove si fonde con il cielo, farci scoprire “l’infinita vanità del nulla”, il “Nulla più forte di tutto”; eccolo parlarci della morte, di “giovani spiriti che vagano ancora nel ventre liquido di una madre ineluttabile”; eccolo a far narrare sulle onde di mostri marini e di immaginari fantastici ma soprattutto “dei mostri che sono dentro gli uomini, dentro di noi, che sembrano ormai vivervi ed abitarvi. Per sempre”.
Ma quelle onde che solcano la piatta superficie e disvelano frammenti di nera umanità, di nostalgia e di morte, Lazzarini fa spruzzare anche gocce di spuma che cantano le ragioni dell’utopia senza fantasmi, il primato del sogno, l’ambizione della libertà che lega l’umanità tanto al suo passato quanto al suo futuro. Come quel canto “Addio Lugano bella” che “si intreccia a prua con il volo dei gabbiani”. La morte, dunque, ma anche l’insopprimibile sfida della speranza.”
1998, giornalista Roberto Bernabò