Elisa Tamburini

Viareggio Mostra “Approdi”

2023

Il mio viaggio attraverso le pieghe di Menghino

“Non voglio addentrarmi in valutazioni tecniche o ipotesi irrealistiche sull’uomo che poteva essere Giovanni poiché per mia grande sfortuna non ho potuto conoscerlo, le nostre strade non si sono incrociate, e sicuramente non ne sarei all’altezza. Dai racconti che ho sentito penso che sarebbero nate lunghe chiacchierate, riflessioni e l’opportunità di avere una visione a trecentosessanta gradi dell’humus viareggino , della sua intrigante percezione e una forte voglia di lotta sociale.

Mi limito, quindi, a darvi una mia personalissima descrizione delle emozioni che suscitano su di me le sue finestre sul mondo. La percezione più grande che ho avuto entrando nell’Osteria Menghino, dove erano depositate le sue opere, è stata quella di vedere appoggiate a terra e alle pareti non delle tele, ma dei portali che aspettavano solo di essere spolverati e riattivati, da cui piano piano stessero per riprender vita tutti i ricordi e gli scenari popolari ormai non più accessibili se non, appunto, attraverso questa preziosa testimonianza.

Frammenti di stili di vita che non appartengono più al nostro tempo, diapositive depositate sull’arenile con la risacca di uno spirito irrequieto, fluido, incontenibile e libero come il mare. Queste silenziose tele si trascinano dietro tutto il rumore che fa la vita dei personaggi in esse descritti. Osservo le pennellate a tratti materiche, a tratti sporcate, osservo l’andatura delle setole che la sua mano ha spostato su di esse e mi ritrovo in un intreccio di pieghe che descrive la cruda realtà e la ruvidità degli uomini.

Mi accorgo di quanto sia vera e monumentale l’opera di Giovanni che incastra tutti i suoni della sua città tra le pieghe dure e riarse delle rughe e dei lineamenti nei visi dei pescatori, nelle loro mani dalle nocche giganti e dalle dita nodose, quasi di pietra, che raccontano la dura vita dell’epoca, un epoca di cui sentiamo solo il ricordo di chi l’ha vissuta, un’epoca che ha il sapore della salsedine e che, come il mare, ci lascia addosso la sensazione sabbiosa del sale, del sole che asciuga la pelle del viso e che ci riporta ad un ancestrale sapere collettivo di quelle che sono le nostre origini.

Amo Menghino perché racconta del tempo, un tempo incastrato tra le rughe e le linee dense di quei volti che danno una dimensione e uno spazio alla vita vissuta. Quel tempo raccontato attraverso grafiche forti, sicure, sicure come le certezze e le consapevolezze del sapere degli anziani. Monumentali personaggi che quasi sembrano scolpiti da quanto decise e dense sono le sue pennellate nel raccontarli, da quanto precisi e forti sono i segni che li incastonano a dei semplici fogli, grafiche meticolose che hanno la voglia di testimoniare ogni dettaglio percepito, segni che hanno una narrativa.

Amo non solo le sue forme ma i suoi colori, che, più di ogni altra cosa in lui, raccontano di quanto sia ampio e disteso il suo sguardo che non solo era rivolto al mare ma che ben conosceva il suo territorio. Questi colori terrosi, raccolti dalle Apuane, che scivolano a valle attraverso macchie verdi, senape e polverosi ricordi che si trascinano sulle spiagge del litorale tirrenico per rimpastarsi nei densi lilla, viola e magenta delle albe riflesse dalle acque e nei rossi densi e pastosi dei tramonti sulle Darsene.

La sua capacità di raccontare le sue percezioni sta soprattutto nella paletta colori che cambia come cambia il panorama di fronte ai suoi occhi. Lo si osserva bene nella successione dei decenni quando, avvicinandosi alla cupa realtà dei racconti dei lavoratori delle darsene, utilizza neri e marroni quasi bruciati, come la pece e la stoppa usata nelle chiglie dai calafati, poi si sposta nelle strade venezuelane per farsi contagiare dai suoi vibranti colori per ritornare a guardare la sua Città attraverso una luce sempre più innamorata di essi, che ne filtra l’essenza percepita dal suo animo.

Sicuramente la sua spiccata sensibilità nel capire la vita e gli animi umani gli ha permesso non solo di raccontare una memoria del so tempo ma anche di percepire quello a cui saremmo andati incontro attraverso le sue ultime opere , che hanno una grammatica completamente differente, costruite con i canoni dello storytelling del fumetto e con colori accesi e sparati, a tratti acidi, della fumettistica americana.

L’opera di Menghino è una scatola, una scatola del tempo che trattiene al suo interno tutti i rumori, gli odori e le percezioni non solo di una realtà che non ci appartiene più ma anche di uno spirito sensibile e precursore che va custodito come un tesoro, quanto la sua genialità nell’essere veggente attraverso la razionalizzazione di tutto quello che succedeva nella società intorno a lui; lo conferma il fatto che ancora dopo venti anni, la sua opera sia attuale e descrittiva del nostro tempo.

Resto estasiata dal romanticismo che circonda la sua figura e dal profondo intreccio che ancora ha con la sua Città, di cui Lui ha raccontato la memoria ma dove sempre Lui è e resterà nella memoria di tutti quelli che la vivono.”

Artista Elisa Tamburini